di Chiara Prizzi

 

“Si devono allenare mente e corpo, perché diversamente la pratica non ha senso
[
…] la mente e il corpo sono simili a due ruote di un carro, nessuna delle due ha il predominio.
Questa è la pratica autentica. Ottenere qualcosa di valore spirituale nella vita è vera pratica.”

M° Shingeru Egami

 

Del Karate-do come compagno e maestro di vita, come temperatore e sensibilizzatore dello spirito, come molto di più di un semplice sport, insomma, noi allievi dell’Heijo Shin Dojo abbiamo avuto per fortuna modo di riflettere spesso ed a lungo. Questo grazie soprattutto al nostro Maestro, Sensei Salvatore Schetto, ed al suo volersi “ostinatamente” dedicare non solo all’insegnamento pratico, ma anche a quello spirituale, mentale, caratteriale; al suo impegno nell’insegnarci un metodo, quello del vedere (e vivere) il mondo attraverso una sensibilità ed un’attenzione che il Karate-do può fornirci, e che lui è riuscito a sviluppare nel corso di decenni di pratica.

Questo aspetto è collegato a mio avviso alla citazione che ho voluto inserire all’inizio dell’articolo. Così come i più noti ed universali elementi opposti per natura, infatti, anche corpo e mente sono tra di loro complementari. Come la notte e il giorno, l’istinto e il raziocinio, l’amore e l’odio, l’yin e lo yang orientali, l’uomo e la donna; l’universo in cui viviamo non è che un meraviglioso equilibrio di innumerevoli bilance. Ed anche l’essere umano non sarebbe tale, se non fosse composto da un corpo ed una mente; non potrebbe infatti essere un organismo vuoto o uno spirito senza dimora fisica.
Ed anche nel suo accostarsi alla pratica del Karate, l’uomo deve tener conto di entrambi questi elementi, se vuole accedere all’apprendimento di quella sensibilità e di quella nervatura a cui ho accennato prima. Altrimenti, si ridurrebbe tutto ad un mero esercizio fisico, che dopo qualche tempo risulterebbe addirittura noioso e inutile. Il Karate, se praticato da qualcuno che ci crede, può portare a risultati a livello personale meravigliosi, che molte altre “attività” non possono promettere.
Quando ho letto quella frase, l’ho associata ad una mia personale sensazione, sulla quale rifletto da tempo, e ad alcune nozioni sulla filosofia orientale che ho appreso nel corso del tempo.

La sensazione a cui mi riferisco, deriva dalla razionalizzazione di quella “carica”, quella energia, che ci si sente addosso dopo un allenamento di Karate, nonostante i muscoli doloranti e gli eventuali lividi. E’ come se la pratica “ricaricasse” il nostro spirito, così che al termine di una lezione, smesso il gi e salutati i compagni di Dojo, portassimo via con noi, dentro di noi, una piccola fiamma, un calore che ci da forza e gioia.
In genere visualizzo questa energia interiore come un piccolo sole, che ognuno di noi possiede, allo stesso tempo custodendolo come un tesoro e donandolo agli altri, utilizzandolo come carburante e come difesa, se fosse necessario. Nella quotidianità, dato che non siamo ancora al livello tale da poter essere altrimenti, un po’ spendiamo, un po’ cerchiamo di incrementare, questo piccolo sole; quel che è sicuro è però che, quasi magicamente, le lezioni in palestra, o la pratica del Karate in generale, ci permettono di ricaricarlo.
Altrimenti come mai, quando ci raduniamo fuori dal Dojo, che ci sia freddo e nebbia o una chiara sera primaverile, abbiamo tutti il sorriso negli occhi?
In Giappone chiamano questa energia interiore “Ki”, in Cina “Chi”, ed è un argomento di cui la letteratura riguardante le arti marziali e la filosofia orientale è ricchissima. Se ne scrivo non è per cimentarmi nella stesura di un saggio sul Ki, perché le mie conoscenze a riguardo non sono per nulla approfondite, ma ciò che voglio è parlare di questa forza, di queste sensazioni bellissime, che il Karate mi dona insieme al lato “fisico”, quello che riguarda il corpo, e che io ho identificato in parte con il Ki.

Nell’antica Cina il Ki era visto come la forza vitale che origina tutte le funzioni fisiche e psicologiche delle persone, dunque una sorta di fluido che circola negli organi interni e nei meridiani, generando i principali processi fisiologici; è per questo che il suo ruolo era fondamentale nelle pratiche mediche tradizionali.
Questo derivava (o forse ne era punto d’origine) da un concetto legato all’inspiegabile e meraviglioso corso della vita, al “perché” delle caratteristiche del corpo umano: la crescita, il rinnovamento, la riparazione. Si credeva infatti che nell’essere umano esista la memoria di un passato antichissimo, un collegamento con i primordi della vita, e che nascoste dentro le cellule che lo compongono si trovino, misteriose e segrete, le istruzioni per edificare l’intera esistenza. Le cellule sanno infatti perfettamente quello che devono fare per la crescita, la vita e la riproduzione.
Questa conoscenza intrinseca alle cellule per l’antica cultura cinese era una forma di energia; un’energia ancestrale, primordiale, una sorta di memoria, saggezza e armonia interiori; un collegamento a tutti gli esseri precedenti e conseguenti; questa energia era chiamata appunto Ki. Essenza, seme, germe, nucleo dove si condensa il significato della vita.
Ingrandendo miliardi di volte la scala di misura, la filosofia cinese ci dice che così come la cellula conosce il proprio scopo, sa chi è e cosa deve fare e lavora instancabilmente per essere sé stessa, anche l’essere umano ha un preciso compito nella vita. Cercarlo, scoprirlo, comprenderlo e realizzarlo è la chiave della felicità.

Riferendoci alla cultura giapponese, invece, una possibile traduzione dell’ideogramma Ki, è “essenza individuale”, ovvero quella peculiare caratteristica che distingue ogni essere da tutti gli altri. Vista da questa prospettiva, verrebbero in mente tantissimi termini, che vanno da anima, a coscienza, oppure più concretamente a personalità, individualità, carattere, identità. Ciò che importa è che la filosofia nipponica definisce così l’esistenza di una energia che si muove dall’interno della nostra persona (intesa come sistema mente/corpo) e gli permette di interagire con la realtà; un concetto quindi ben diverso da quello originario cinese.
Dunque il Ki è un qualcosa che ogni individuo possiede sin dalla nascita, in misura maggiore o minore, che lo caratterizza, e che può però nel corso del tempo essere incrementato attraverso la pratica di specifici esercizi o di alcune arti, come quelle marziali. E’ una forza così personale e connaturata, che in tempi antichi si è addirittura ricorso alla sua “lettura” per determinare il massimo livello della forza dei soldati, e per scegliere in base a ciò il movimento militare idoneo; oppure si è utilizzato il suo studio per creare una forma di pratica di predizione del destino, basata sull’abilità dell’indovino di leggere il Ki di un individuo.

Per quel che ho avuto modo di sperimentare o apprendere, invece, nelle arti marziali il Ki viene in parte associato a quella che i fisici del XVIII e XIX secolo chiamavano vis viva (forza viva), ovvero una sorta di energia fluida, che scorre nel corpo, e che ha la capacità di trasferirsi da un oggetto materiale ad un altro. Per alcune arti, come il Tai Chi Chuan ed il Chi Kung, il Ki può essere accumulato (ed accresciuto, nel tempo) tramite esercizi di concentrazione e respirazione, in varie parti del corpo; per altre arti invece non è necessario ricorrere a particolari esercizi, poiché il Ki viene allenato al pari del fisico durante la pratica.
Nonostante alcune differenze, era (ed è) da tutte identificata la “sede” del Ki con la hara, ovvero un punto all’interno del corpo situato circa quattro centimetri sotto l’ombelico. In realtà questa credenza ha una motivazione fisica: specialmente in riferimento alla classica struttura fisica orientale, infatti, ciò che veramente rappresenta questo punto non è altro che il centro di massa del corpo umano; fatto verificabile tramite dei calcoli strutturali.

Ad ogni modo, ciò che emerge da un’analisi non per forza troppo approfondita, è che tutte le discipline marziali orientali, in misura maggiore o minore ed in modi diversi, contemplano tra gli obiettivi lo sviluppo e il rafforzamento di un’energia non puramente muscolare, ma che abbia origine all’interno del proprio corpo, che sia strettamente personale, e che possa essere concentrata e diretta verso l’esterno attraverso un’ottima tecnica. Ed ecco che torna il binomio mente/corpo: la pura tecnica da sola può anche essere precisa, bella da vedere, ma sarà sempre sterile: un corpo senz’anima.
Con questo non voglio dire che tecnica o energia interiore siano una più importante dell’altra: sono semplicemente inscindibili, se gli obiettivi sono l’efficacia e l’equilibrio personale. La tecnica deve essere perfetta perché la sua perfezione corrisponde alla massima espressione dell’energia. Ripetere sempre le stesse tecniche di base, correggere i movimenti al millimetro, non è pura pignoleria, ma solo la ricerca del giusto azionamento di quei magnifici ingranaggi che permettono a ciò che abbiamo dentro, alla forza che più propriamente ci appartiene, di trovare la strada adatta a venire fuori, dirompente, e di poter essere controllata e diretta senza dispersioni proprio nel punto in cui vogliamo che vada.
La ricerca di questa combinazione meravigliosa, è un impegno complesso, ma ciò che importa è che già solo provandoci costantemente, andiamo costruendo noi stessi: migliorandoci nella sensibilità e nella nervatura, nella predisposizione al sacrificio e nella disciplina, nel rispetto per gli altri e per noi stessi, in poche parole nel Karate e come persone.
Per come la vedo io, infatti, l’allenamento del corpo, il Ki e tutti questi insegnamenti che il Karate ci da, che vanno ben oltre dunque la pratica settimanale, sono strettamente connessi. Noi portiamo ogni giorno nel mondo la nostra persona, al cui interno stanno un’energia del tutto speciale, un piccolo e proprio sole, ed una mente pensante forgiata il più possibile dal Karate, che ci guida nell’affrontare le situazioni e nel rapporto con gli altri. Siamo un’unica entità, e l’aspetto fantastico è che il Karate-do è in grado di “allenarla” in tutte le sue componenti, dunque nella sua interezza.
In un libro ho trovato la seguente frase, che secondo me può essere inserita perfettamente in questo discorso: “Entrando in contatto fisico con gli altri, si entrerà anche in contatto spirituale. Nella vita quotidiana bisogna arrivare a conoscere le nostre relazioni con gli altri, come ognuno di noi influisca sugli altri e come le idee si possano scambiare. Si devono rispettare gli altri e pensare bene di loro. Le persone devono essere mentalmente aperte e rispettose del benessere e della felicità altrui. In un combattimento, quando riuscirete a trascendere dalla semplice pratica, riuscirete ad essere una cosa sola con il vostro avversario”.
Al di là delle opinioni personali, questo pensiero ritengo sia una sorta di riassunto di una parte di quanto è stato detto, poiché mette in relazione l’aspetto fisico, quello spirituale, l’importanza del rapporto e del rispetto verso le altre persone, ed il Karate.

Come nota a quanto detto sopra, ovvero che un obiettivo importante è saper controllare e direzionare la nostra energia, vorrei fare una breve parentesi sul kiai. Come tutti sappiamo, il kiai è quell’espressione vocale che in alcune occasioni viene emessa in corrispondenza del termine di una tecnica, e che non deve essere un semplice vocalizzo “di gola”, ma deve provenire da dentro.
La parola kiai, è composta dall’ormai tanto famoso Ki, e da “Ai” che tra i possibili significati riporta “armonia”: il kiai è dunque l’”armonia del Ki”. Benché ovviamente non sia necessario eseguirlo ad ogni tecnica perché questa risulti efficace, il kiai è la manifestazione di uno stato di totale controllo del proprio corpo e della propria energia.
Secondo alcune correnti di pensiero questo stato, per quanto sia facilmente raggiungibile consciamente, è nella sua forma più pura collegato ad un’incoscienza assoluta dei propri movimenti, per quanto precisi essi siano. Questo viene collegato al principio della “mente vuota”, poiché le azioni passano dallo stato di coscienza a quello di incoscienza.
Correnti filosofiche/marziali a parte, il kiai è sicuramente per i principianti un importante momento di concentrazione ed espressione della propria determinazione e del proprio impegno; per i più esperti ritengo che debba essere la manifestazione “sonora” della perfetta fuoriuscita della nostra energia interna tramite una buona tecnica, come se l’energia fuoriuscisse in parte anche tramite la gola, impetuosa ma completamente sotto il proprio controllo.
Detto questo, lascio a chiunque voglia cogliere questa occasione la possibilità di riflettere sul kime, altra parola in cui compare la radice ki-, seguita da “me”, che tra i possibili significati annovera “esperienza”.

Per andare verso una conclusione, vorrei soffermarmi su un’altra riflessione che ho fatto riguardo al Ki, e che potrebbe essere adatta a chi non crede o ha poca fiducia della filosofia orientale.
Se infatti è vero che ognuno di noi nasce con questa energia interiore, allora questa altro non è che una miscela di passione e determinazione. Sono due termini che per me sono strettamente connessi (o comprendono) entusiasmo, nervatura, sacrificio, costanza, impegno.
E’ una miscela di sentimento e attitudine che ci viene donata alla nascita, e che può prendere fuoco in noi, più o meno consapevolmente, quando incontra la giusta scintilla. Secondo me, per alcune persone, se per un “destino fortunato” avviene l’incontro con il Karate, questa miscela non solo prende fuoco, ma divampa in un incendio. Anzi, diventa un piccolo sole.
Nel Karate che abbiamo la fortuna di praticare noi, questa energia ha modo di essere allenata ed intensificata. Senza quasi accorgersene consciamente, fin dalle prime lezioni come cintura bianca, non solo l’allenamento fisico, ma soprattutto la disciplina ed il sacrificio, ci aiutano a prenderci cura del nostro unico piccolo sole, e ad instaurare con lui un rapporto esclusivo, di perfetta simbiosi, in cui l’uno prende e dona all’altro, come in un rapporto d’amore.
Allenandoci lo alimentiamo e ci facciamo poi alimentare da esso, quasi fosse un carburante. Lo sentiamo spronarci quando siamo stanchi, e pervaderci trionfante dopo un allenamento particolarmente pesante. Lo sentiamo quando ci chiniamo con le mani vicine, in seiza, per il saluto. Lo sentiamo quando compiamo un sacrificio per qualcosa per cui sappiamo che vale la pena farlo.
Cosa può essere questa sensazione, se non passione e determinazione? Sono due sentimenti che conosciamo, perché (non così spesso purtroppo) capita di “applicarli” in altri casi, per forti situazioni o per il raggiungimento di importanti obiettivi.
Le mie possono sembrare parole senza senso, ed in effetti sono solo mie considerazioni e sensazioni, che sono riuscita a fissare solo poco tempo fa, quando, subito prima di un allenamento impegnativo, mi è stato chiesto: “ma chi te lo fa fare?”. Da quel momento mi sono chiesta cos’è che mi spinge, che mi fa andare avanti, nonostante la mia connaturata pigrizia, l’indolenza, l’inerzia a continuare il proprio stato di tranquillità, nonostante ciò che mi aspetta non è altro che impegno, stanchezza, sacrificio. Cos’è che non mi fa fermare e ritirare proprio un passo prima dell’inizio?
Quando nessuno ci obbliga a fare qualcosa, le motivazioni devono per forza provenire da noi stessi. Per me, questa forza motrice è quel piccolo sole, che sia il Ki, o che siano la passione e la determinazione che il Karate ha acceso ed a cui si è legato, con la promessa di farci doni che vanno al di là del fisico allenato e il ritenersi “pericolosi”. Forse tutto questo è perché, in cuor nostro, tutti noi sappiamo che vale la pena impegnarsi per qualcosa che può farci del bene e che ha tanto da insegnarci.

Se qualcuno, tra chi leggerà questo articolo, dovesse sentire dentro di sé qualcosa di simile a ciò di cui ho discusso, questo “piccolo sole”, spero che lo ascolti sempre, non abbandonandosi mai (che sia nella pratica del Karate o nella vita in generale) alla mollezza della “modernità”, che ci riempie di facilitazioni e pochezze, quasi per insegnarci a non pensare di testa nostra, a non sapere reagire e lottare; che non insegna più i valori più importanti.

Io ritengo di non essere ancora nemmeno in vista dei meravigliosi traguardi che ho descritto sopra, in più punti, ma penso che ciò che conta sia la ricerca, continuare ancora e ancora, con costanza, perché questi sono di quei traguardi che non si raggiungono tutto d’un tratto, ma che si costruiscono pezzo dopo pezzo, millimetro dopo millimetro.

Oss!

Chiara Prizzi
Allieva dell’Heijo Shin Dojo

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