di Romano Simoni

Pratico il Karate Shotokan da sei anni, un tempo molto ridotto nella prospettiva di una disciplina che si studia per una vita intera, ma di certo sufficiente a constatare quanto questo mondo sia diverso se guardato dall’interno o dall’esterno. Ho notato  infatti un curioso paradosso: il rammarico per chi lo pratica, e sicuramente ancor più per chi lo insegna, è che si identifichi il Karate (e in generale ogni arte marziale) con la violenza, con il culto della forza o nel migliore dei casi con l’idea di “giustizia sommaria” desunta dalle pellicole cinematografiche; per alcuni tuttavia questi valori deteriori sono addirittura positivi, e si allontanano delusi dal Karate non appena capiscono che non ha con essi nulla a che fare. In sostanza, per effetto di un duplice e antitetico fraintendimento, il Karate è  troppo violento per alcuni ma lo è troppo poco per altri.

Nella vita io faccio l’insegnante di scuola superiore, quindi lavoro con ragazzi che vanno dai tredici ai diciotto anni. E’ capitato talvolta che il discorso, su loro sollecitazione, cadesse sulle discipline sportive e marziali. Ho così scoperto che diversi ragazzi si sono accostati in passato al Karate, restandone delusi. Ricordo uno studente di origine francese che, pur arrivato alla cintura marrone, continuava a trovare noiosissimi i kata e a causa di questo aveva abbandonato. Altri si sono stancati assai prima, dopo una manciata di lezioni: il loro commento è stato che non trovavano senso nel “dare i pugni all’aria” e trovavano il kihon una perdita di tempo. Ecco che nella loro percezione quella “mano vuota” con cui il Maestro Funakoshi nel secolo scorso ha ribattezzato la “mano cinese” è diventata una “mano che colpisce il vuoto” in un gesto privo di significato.
Non sorprende dunque che nel corso di queste discussioni occasionali alcuni studenti mi abbiano chiesto ingenuamente “quale sia l’arte marziale più devastante”, un po’ come si domanderebbero le prestazioni di un’arma in termini di precisione, potenza, frequenza di fuoco e così via.
Ancora più significativo mi sembra tuttavia che alcuni “addetti ai lavori” giochino a scopi commerciali su questi fraintendimenti. Ho visto manifesti che pubblicizzavano corsi di arti marziali insistendo, in modo un po’ terroristico, sulla pericolosità della società in cui ci troviamo a vivere e sulla conseguente necessità di imparare a difendersi da soli.
Mi è capitato anche di leggere una pubblicazione che portava in quarta di copertina la dicitura “un libro per coloro i quali non hanno ancora trovato nel Karate quello che cercavano”. In realtà il testo si è poi rivelato molto interessante, perché partiva da una prospettiva storica – l’evoluzione del Karate moderno da quello tradizionale – e istituiva una serie di confronti con alcune arti marziali cinesi e più in generale metteva in relazione le tecniche del Karate con la fisiologia umana secondo medicina cinese, spiegandone così l’effetto sul corpo.
Non mi sembra che queste operazioni commerciali contribuiscano a liberare il Karate da quel doppio fraintendimento cui accennavo sopra. A tutti coloro che si accostano alle arti marziali unicamente come metodo di autodifesa dovrebbe venire chiarito che per chi pretende di imparare a difendersi da un’aggressione in poche ore di lezione (ammesso che sia possibile), è molto più efficace un corso di difesa personale che un corso di Karate, Wushu, Jujitsu o altro. Ricordo a tal proposito che in uno dei primi raduni a cui ho partecipato un maestro spiegava che “far Karate non è imparare a fare a botte”: per quello, aggiungeva, sarebbe bastato crescere in certi quartieri disagiati, dove le risse sono la norma, fin da ragazzini.
Quanto alla pubblicazione di cui sopra, non credo proprio che un praticante di Karate dia un senso al suo kihon o al suo kata solo e soltanto se apprende qual è l’origine cinese di una forma o quale meridiano di energia verrebbe interrotto con una determinata tecnica di shuto uchi o di tzuki portata senza controllo. Intendiamoci, si tratta di nozioni interessantissime e che sarebbe proficuo approfondire, ma non è ragionevole che sia questa la via per ritrovare il senso profondo di una disciplina. Del resto in qualunque dojo vengono spiegate le applicazioni dei kata e del kihon e non si pretende che il praticante replichi un gesto senza capirlo se non nelle primissime lezioni, quando copia gli altri.
Credo che tutto stia allora nel distinguere Karate e “Karate-do”, ossia “la via del Karate”. Come in ogni apprendimento, ci sono anche qui obiettivi più immediati e obiettivi più remoti e profondi. Certo, se uno si allena ad eseguire una tecnica, l’obiettivo immediato sarà di imparare ad applicarla correttamente, rendendola efficace, si tratti di difesa o di attacco. Ed è anche vero, come i maestri ricordano, che per rendersi conto dell’efficacia di un colpo è necessario alternare di tanto in tanto un po’ di esercizio col sacco o col makiwara agli abituali kata, kihon e kumite controllati. Dopo molti anni di pratica un karateka sarà sicuramente più capace di cavarsela, se minacciato da un aggressore in una situazione reale, rispetto ad un non praticante o ad un neofita. Ma non è certo il solo lavoro al sacco o al makiwara (né, credo, i kumite a contatto pieno di certi stili di Karate) a giustificare l’apprendimento del Karate, se addirittura uno Shihan (praticamente un caposcuola) dice che un karateka preferirà in caso di minaccia reale e di necessità la via diplomatica e ricorrerà al Karate solo dove non sia possibile fuggire, cosa per nulla disonorevole.
E’ dunque evidente che c’è un obiettivo più profondo che porta ad indossare il gi più volte a settimana e a frequentare un dojo per anni: questo è il valore aggiunto del “Karate-do”, che vuole  migliorare la persona nel suo complesso attraverso l’apprendimento del Karate.  Quali valori entrano in gioco?  La disciplina prima di tutto, che non è solo rispetto per il grado superiore o per il maestro ma prima di tutto per se stessi; l’umiltà, presupposto indispensabile per imparare; l’autocontrollo, attraverso cui si impara ad essere sempre attenti, a parlare a tempo debito e in modo educato, a disporsi in maniera razionale e veloce nello spazio, a sopportare la fatica e naturalmente ad eseguire le tecniche in modo corretto, rispettando il proprio partner-avversario; la gratitudine per chi ci insegna il Karate e la generosità verso chi apprende; l’amore per la precisione, che sviluppa anche il senso estetico dell’armonia; l’equilibrio interiore, che consiste nel dare ad ogni cosa la giusta importanza.  Ecco che allora la “mano vuota” si riempie di significati, la pratica marziale diventa un’ “arte” perché la tecnica non resta fine a se stessa ma si piega ad un fine più alto. Accanto ad una ricerca “di confine”, quella dei maestri di grado più alto che portano lo sviluppo tecnico della disciplina ad un grado sempre più elevato, c’è la ricerca costante di ciascun praticante, che impara ad applicare al proprio corpo e alla propria situazione, nella consapevolezza dei propri limiti, ciò che gli viene trasmesso.

L’origine profonda dell’errore di valutazione con cui molti  si accostano alle discipline marziali è purtroppo da cercare nella nostra società. In un mondo che dà valore all’avere e non all’essere, l’arte marziale rischia di venire intesa come qualcosa che si deve poter acquistare semplicemente, come un bene di consumo, e che come un bene di consumo deve avere una immediata utilità pratica (un’arma per difendermi o addirittura uno strumento in più per accrescere la mia forza, ma naturalmente solo quella fisica); ecco che poi, davanti al rigore e alla precisione richiesti, si rischia un senso di fastidio se si è abituati, come spesso oggi, ad un approccio superficiale alle cose, al “tutto e subito” che sembra essere la norma per i ragazzi fin dalla tenera età. Se si pensa che le arti marziali orientali nascono come declinazione di filosofie come il taoismo e il buddismo, quanto di più lontano si possa pensare dalla società della sopraffazione, della spettacolarizzazione e della mercificazione, non risulta sorprendente che vengano spesso completamente travisate

Oss!

Romano Simoni
Allievo dell’Heijo Shin Dojo

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