Quello che sarebbe divenuto il più illustre tra i saggi della Cina nacque nel 552 o nel 551 a. C. in un piccolo principato dell’attuale Shantung, il paese di Lu. Il suo nome di famiglia era K’ung e, poiché egli è spesso chiamato Maestro K’ung, Kung tzù o Kung fu-tzù, i missionari occidentali del ‘600 e del ‘700 fecero conoscere il suo nome all’Occidente nella forma latinizzata che continua a essere usata in Europa anche oggi. Il suo nome personale (ming) era Ch-iu, il suo nome pubblico (tzu) era Chung-ni.
Disponiamo di pochissime notizie certe sulla biografia di Confucio. La fonte più diretta sulla sua vita e il suo pensiero resta il Lun-yu, raccolta di suoi detti redatta dai suoi discepoli.
Fonte meno sicura è costituita dalla biografia che figura nelle memorie storiche di Ssu-ma Ch’ien, il grande storico vissuto nel II secolo avanti Cristo. Infine, altre opere dell’antichità riferiscono aneddoti e detti attribuiti al Maestro K’ung, ma si tratta in ogni caso di tradizioni di scuola non suscettibili di essere verificate. A voler credere a tali tradizioni, comunque, il Maestro sarebbe stato un alto funzionario alla corte dello Stato di Lu, ma è più verosimile che in realtà i suoi incarichi siano stati modesti. D’altra parte, probabilmente perché la sua ideologia non rispondeva più alle esigenze del tempo, dovette andare in esilio e dal 495 circa, condusse una vita errabonda seguito da un gruppo di discepoli ai quali insegnava la sua dottrina con la parola e con l’esempio. Più tardi poté rientrare a Lu dove continuò a insegnare e dove morì nel 479.
Confucio avrebbe basato il proprio insegnamento su dei testi che divennero i Classici (ching) e secondo la tradizione avrebbe redatto lui stesso almeno uno di tali testi, il Ch un-ch’iu (Primavere e Autunni), che è una cronaca del paese di Lu. Sono necessarie a questo punto alcune precisazioni. Il numero delle opere considerate come Classici ha variato nel corso della storia. Confucio, secondo la tradizione, avrebbe fissato il testo di sei ching quelli cioè che riguardano la Poesia, i Documenti storici dell’Antichità, i Riti, la Musica, la Divinazione (classico delle Mutazioni) e infine il Ch’un-ch iu. Il ching della Musica sarebbe scomparso (o forse non era costituito da un testo scritto) e perciò i letterati dell’epoca Han considerarono soltanto cinque Classici: lo Shih-ching (classico della Poesia), lo Shu-ching ( i Documenti storici), i Riti (vari trattati riuniti nei Li-chi) e lo Yi-ching o Libro delle Mutazioni, e infine il Ch ún-ch’iu.
Sotto i T’ang il programma degli esami pubblici comprendeva nove Classici e la collezione giunse infine a comprendere tredici Classici accompagnati a loro volta da innumerevoli commenti. D’altro canto solo una piccola parte di questa vasta letteratura erudita interessa la storia della filosofia.
Sulla composizione dei Classici esistono in realtà due tradizioni diverse. Secondo la prima di esse, Confucio avrebbe scritto direttamente la maggior parte dei Classici. Egli sarebbe stato un riformatore dalle idee ardite ed avrebbe anche coltivato una dottrina esoterica: pertanto dietro il senso letterale dei testi sarebbe necessario cercare l’idea più profonda e nascosta del Maestro. In base alla seconda tradizione, egli fu invece essenzialmente un editore di testi antichi: egli stesso affermava che non intendeva innovare e che non faceva altro che trasmettere la tradizione degli antichi saggi: si considerava uno storico moralista, non un innovatore. Probabilmente è vero che Confucio si servì di testi scritti più antichi e che non scrisse nulla personalmente; è certo che non nutriva l’intenzione di fondare una filosofia nuova e ancora meno una nuova religione.
Egli si proponeva invece di insegnare un’arte del vivere, una saggezza basata sulle tradizioni dell’aristocrazia ma rifiutando i pregiudizi dell’alta nobiltà e accentuando la tendenza laicista e umanista che si manifesta già nelle affermazioni attribuite a vari consiglieri di capi feudali dell’epoca trattata dal Ch’un-ch’iu, Primavere e Autunni che va dal 722 al 481. Sembra soprattutto che egli sia stato il primo maestro a organizzare un insegnamento privato aperto in linea di principio a tutti, senza distinzione di classe. In questo consiste la sua originalità e la sua importanza: egli seppe introdurre uno spirito nuovo in una tradizione ormai in decadenza, trasmettendolo a una parte notevole della classe intellettuale. Quest’ultima, divenuta «confuciana», rimase sufficientemente influente per poter perpetuare l’eredità spirituale del Maestro e per imporla infine ai creatori dello Stato imperiale cinese.
La dottrina di Confucio non è esposta in modo sistematico nel Lun-yu. Gli autori di questa raccolta vi hanno registrato i detti pronunciati dal Maestro in varie circostanze nel corso di libere conversazioni con i suoi discepoli. Tuttavia, da questi Dialoghi – come viene spesso tradotto il titolo cinese – si possono estrarre due delle caratteristiche principali del suo pensiero, cioè l’atteggiamento nei confronti della religione e il suo umanesimo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, Confucio può sembrare, di fronte ad alcune sue affermazioni, uno scettico e un agnostico. Egli si rifiutava di parlare «dei prodigi, del destino e degli spiriti». Tuttavia egli citava spesso il Cielo come un giudice supremo che nessuno può ingannare e di cui il saggio deve rispettare la volontà. Egli stesso si riteneva oggetto di un mandato del Cielo per salvare il mondo e d’altro canto faceva piamente sacrifici ai suoi genitori e agli antenati, di cui avvertiva la presenza al momento delle cerimonie; mentre, pur rispettando gli altri spiriti e le divinità, le teneva a distanza, il che probabilmente significa che si asteneva dal frequentare i loro, specifici luoghi di culto. Così, lungi dal respingere le credenze della religione tradizionale, Confucio le condivideva, ma trovava più saggio rivolgersi alla divinità più elevata del cielo piuttosto che agli innumerevoli spiriti inferiori. Probabilmente con ciò egli voleva prendere le distanze nei confronti degli indovini e degli altri specialisti delle scienze occulte. Il Cielo per lui d’altra parte non è più la divinità personale, il Signore dell’Alto, lo Shang-ti di un tempo, ma è ormai soltanto una sorta di Provvidenza alquanto astratta: presso i confuciani posteriori esso diverrà il cielo siderale, regolatore quasi meccanico del mondo.
Quanto al culto degli antenati, visto che esso era l’espressione religiosa per eccellenza del sistema sociale ed etico che Confucio cercava di salvare, è del tutto logico che esso venisse a occupare un posto importante nell’insegnamento del saggio. Fu in parte grazie all’influenza di Confucio che la pratica, che era stata corrente presso gli Shang, anche se più rara presso i Chou, di sacrificare vittime umane nel corso dei funerali di personaggi importanti finì per scomparire completamente: essa era in effetti troppo profondamente contraria al suo ideale umanitario.
Il carattere umanista della dottrina di Confucio si esprime nella dottrina dello Jen. Questo termine, che è omofono della parola che significa «essere umano» in generale, indica nei Dialoghi la virtù per eccellenza, quella grazie a cui gli uomini possono vivere in società. In realtà Confucio non ha mai definito lo Jen. Il passo più esplicito in questo senso è quello in cui egli dichiara che «lo Jen consiste nel dominare se stessi e nel riportarsi alle norme razionali di condotta (Li) ». Ed egli aggiunge che non bisogna guardare o ascoltare, che non bisogna dire né fare nulla che sia contrario alle norme. La parola Li, che corrisponde a quella che noi traduciamo con «norme», indica anche i riti religiosi o semplicemente le regole di convenienza e di cortesia. Si tratta qui di regole oggettive di modelli che è necessario seguire per comportarsi correttamente e avere rapporti soddisfacenti con il proprio prossimo. In altri passi, lo Jen appare come una virtù più concretamente «umana» nel senso in cui noi intendiamo questa espressione: così ad esempio si dice che bisogna desiderare per il proprio prossimo ciò che desideriamo per noi stessi e che non dobbiamo fare ad altri quello che non vorremmo vedere imposto a noi; lo Jen, insomma, «consiste nell’amare gli uomini». Una caratteristica del pensiero confuciano è quella di diffidare dalla spontaneità e dalle iniziative personali anche quando si afferma la «bontà della natura umana»: bisogna essere buono ma secondo le norme (Li), bisogna dominare il proprio temperamento anche nelle sue tendenze migliori; bisogna rispondere al male non con il bene ma secondo equità, perché non sarebbe ragionevole comportarsi nello stesso modo nei confronti dei buoni e nei confronti dei malvagi.
In pratica, per essere un uomo dabbene bisogna coltivarsi, studiare e seguire l’insegnamento degli antichi saggi; bisogna avere rispetto per se stesso e per gli altri, ma soprattutto per i propri superiori e per i propri antenati.
Confucio non negava l’esistenza di valori superiori allo Jen e che caratterizzavano la santità. Il Santo (Sheng) sarebbe in grado di salvare l’intera umanità, ma Confucio dice di non avere mai incontrato un uomo simile. Per quanto lo riguardava, egli intendeva insegnare una morale alla portata di tutti: infatti esistono sentimenti, quali l’amore filiale e fraterno o l’amicizia, che sono comuni a tutti gli uomini. Egli pensava che fosse bene coltivarli in se stesso per poterli comunicare agli altri attraverso l’esempio e attraverso la parola. Qui stava anche un’altra ragione per non occuparsi del campo dei fenomeni che sono al di fuori della nostra portata, cioè non soltanto del mondo occulto ma anche dell’intero campo della natura, del destino che l’uomo subisce e contro il quale sarebbe vano e volgare ribellarsi. Il destino (ming) limita il potere dell’uomo, ma questi possiede un ambito che non dipende dal mondo esterno: è l’ambito della sua libertà, è l’ambito dello Jen. Saggio è l’uomo che riconosce i limiti reciproci di queste due sfere.

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