di Romano Simoni

Dal mio primo raduno sono passati alcuni anni, ma, anche se poi ne sono seguiti  parecchi altri sovrapponendovisi, ricordo ancora abbastanza bene almeno le sensazioni provate.
E’ stata verosimilmente una domenica mattina di novembre, a Carnate (al primissimo raduno, quello di ottobre, non ero andato). Non dovevo aver fatto troppo tardi la sera prima, perché avevo meno sonno che in altre occasioni successive. O forse ero solo più giovane e reggevo meglio gli “stravizzi” del sabato, chi lo sa.
Avevo iniziato a praticare con un amico, Daniele, che però avrebbe smesso il “gi” solo alcuni mesi dopo. Devo a lui se sono entrato nell’Heijo Shin Dojo: ne discutemmo un pomeriggio di fine agosto, mentre facevamo una corsetta lungo la pista ciclabile di che da Dresano va verso Vizzolo; mi parlava di un testo di Yukio Mishima, Sole e acciaio, e sono quasi sicuro che la suggestione dell’arte marziale gli provenisse non dal cinema, come per molti, ma dalla letteratura; pochi giorni fa, a cena da me, ha detto che ricordava ancora a memoria il Dojo Kun (è vero, lo ha “snocciolato”) e ha eseguito le prime due tecniche di Taikyoku Shodan: mi sono rivisto come ero allora, quando abbiamo iniziato insieme.
A quel primo raduno però Daniele non aveva partecipato. Ricordo che si era in fila e il caso vuole che la lezione fosse tenuta dal Maestro Miura (Paolo mi disse che ero stato fortunato a vedere il Maestro al mio primo raduno, poi col tempo ho capito cosa intendeva). Al “seiza” come capita spesso a chi partecipa ad un raduno per la prima volta, sono sceso in ginocchio praticamente da solo, là in fondo, abituato ai tempi più brevi del saluto nel mio Dojo. Il Maestro era più piccolo di statura ma meno anziano di come lo avevo immaginato dai discorsi dei senpai; parlava un italiano approssimativo ma molto essenziale e si capiva bene cosa intendeva dire. Sorrideva molto: era evidentemente contento di trovarsi lì e fare lezione (da insegnante, se pur di tutt’altra disciplina, ricordo che avevo apprezzato molto il fatto che dopo tanti anni un insegnante si “divertisse” ancora a fare lezione).
Ricordo la leggera apprensione che l’occasione del raduno mi creava: essere fra tante persone, sicuramente tutte più brave, mi provocava un vago disagio e pensavo due cose: la prima, che non potevano pretendere troppo visto che ero una cintura bianca; la seconda, che dovevo sbagliare il meno possibile, per non far fare brutta figura al mio maestro: a distanza di tempo tutto ciò fa sicuramente sorridere.
Poi ho visto che in definitiva non dovevo fare né più ne meno di quello che si eseguiva in palestra e che anche alcuni dei miei pari grado erano impacciati come me (piedi sulla stessa linea ed equilibrio precario, oitzuki dal basso verso l’alto, parate indebitamente gyakuashi e tutti gli altri incidenti di percorso da cui siamo passati tutti e in cui talvolta ricadiamo come recidivi). Da una parte la fine della lezione era stata un sollievo; dall’altra vedevo le marroni e le nere che si allenavano ancora e mi chiedevo se un giorno ne avrei fatto parte anche io e soprattutto se avrei avuto la forza e la costanza di reggere un’altra ora e mezza di pratica. In più le tecniche che vedevo eseguire mi sembravano “marziane”. In ogni caso era stata una mattina spesa bene ed ero contento.
Avevo rimosso, come spesso accade, quel giorno.
Mi è tornato alla mente domenica scorsa, mentre tornavo a casa dal raduno di Bagnolo Cremasco. Dopo quasi tre ore di “Bassai Dai” ero molto stanco e mentre scambiavo le impressioni con Giusi (che aveva assistito alla lezione dalla tribuna) riflettevo sul fatto che quella mattina, escluse le cinture nere e marroni, ci saranno state in tutto cinque o sei colorate: un paio di verdi e tre o quattro blu.
Dove erano tutte le bianche, le gialle e le arancioni, ma anche le file di verdi e blu che ricordo nei raduni degli anni passati e di cui via via ho fatto parte anche io senso di gradualità, di coralità, di tappe scandite di un unico cammino non c’era più. E ripensandoci non è questa la prima volta che ciò avviene. Un paio di mesi fa mi ero trovato a notare, non senza un certo ingenuo campanilismo, che le uniche due cinture bianche adulte erano del nostro Dojo.
Eppure i praticanti di tutti i gradi e di tutte le età ci sono, e non sono pochi: lo si vede alle gare, quando i bambini anche piccoli affollano la palestra tanto che non c’è quasi lo spazio per scaldarsi; quando, dato il numero di tatami e dei praticanti che siedono davanti all’uno e all’altro, diventa difficile seguire i propri compagni impegnati nei loro kata.
La speranza naturalmente è che il momento del raduno torni ad essere sentito come esperienza qualificante dell’apprendimento della disciplina anche da parte dei principianti: è sempre un sacrificio alzarsi presto, prendere la macchina, sudare e stancarsi, ma non ricordo una sola volta in cui non sia stato alla fine contento di averlo fatto.

Oss!

Romano Simoni
Allievo dell’Heijo Shin Dojo

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