di Romano Simoni

Sabato 23 febbraio c.a. verso le otto di mattina è morta una mia studentessa; si è schiantata contro un pilone sulla tangenziale, aveva diciannove anni. Nessun altro è rimasto coinvolto nell’incidente.

“Preparati per settimana prossima, che ti interrogo”, le avevo detto il giorno prima. Quando l’ho rivista, il martedì successivo, era nella camera ardente dell’ospedale, sotto gli occhi dei genitori annichiliti.
In questi casi si parla di tragica fatalità, ma non è corretto. Quanto dico può sembrare cinico, mentre è frutto della rabbia che si prova inevitabilmente davanti a una morte così insensata. Tragica fatalità, dal punto di vista della vittima, è venire colpiti da un sasso lanciato da un cavalcavia o restare travolti nel crollo di un ponte. Quella di cui sto parlando, invece, è solo una tragedia, ma non c’è nulla di fatale, se per fatale intendiamo inevitabile.
I fatti sono semplicissimi. La ragazza è arrivata a scuola molto presto; qui ha litigato con una persona e, sconvolta, ha deciso di scappare via, purtroppo in automobile. Sarebbe bastato che restasse a frequentare le lezioni della mattina, magari aspettando il momento dell’intervallo per un chiarimento con quella persona o per uno sfogo con le amiche; sarebbe bastato che in quell’impulso di fuga avesse scelto di andare a sbollire in qualche luogo raggiungibile a piedi; sarebbe bastato che almeno, ferma nel proposito di mettersi al volante, avesse aspettato di calmarsi un poco prima di accendere il motore; sarebbe bastato che comunque si rendesse conto di dover essere ancora più attenta e prudente del solito, trovandosi in uno stato di scarsa padronanza di sé, come è portato a fare chi sa di aver bevuto un bicchiere di troppo. Invece, anche se andava solo a 80 km all’ora e aveva la cintura, è morta sul colpo. Forse ha guardato il cellulare e si è distratta per un attimo, forse stava piangendo e aveva la vista appannata di conseguenza, non lo sapremo mai.
Serve a poco gridare alla sfortuna, dire che veniva a scuola in automobile anziché in pullman soltanto il sabato, che guidava da soli due mesi; oppure colpevolizzarsi al pensiero che la si poteva convincere a restare a scuola, non farla andare via. Ha fatto tutto lei, e ne ha pagato il prezzo più alto.

In questi giorni mi siete venuti in mente tutti voi dell’Heijoshin dojo, soprattutto i più giovani. Noi parliamo spesso del “controllo” e di quella sua assunzione a condotta abituale che è l’ “equilibrio interiore”. Forse queste qualità si possono trovare al massimo grado nel distacco dello zen o nell’imperturbabilità dei filosofi antichi, non so. Più banalmente mi accorgo che “controllo” è già il rendersi conto delle situazioni in cui ci troviamo con una lucidità sufficiente a darne una corretta valutazione, nella portata e nelle conseguenze; capire che abbiamo dei doveri, verso gli altri e verso noi stessi, a prescindere dal nostro stato d’animo, e che l’emotività ci rende umani, ma se non è contenuta in qualche modo e arriva al parossismo ci può perdere in un solo istante, per un solo errore.

Oss!

Romano Simoni
Allievo dell’Heijo Shin Dojo

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