di Francesca Pastorelli

Alcune sere fa ho ascoltato un’intervista in cui si parlava in maniera approfondita di resilienza e subito l’ho associata al Karate-do.

Che cosa permette di reagire di fronte alle situazioni di sofferenza, da quelle più gravi, come una guerra, una alluvione, un terremoto, a quelle più frequentemente riscontrabili quotidianamente, come il venire offesi, derisi, stigmatizzati?
Che cosa fa sì che due persone, poste nella medesima situazione, reagiscano con modalità differenti a tali sofferenze, chi in modo positivo e propositivo, chi in modo negativo, di totale chiusura e nichilismo?

La risposta è: la ‘resilienza’.

Questo termine originariamente era usato esclusivamente in ingegneria e rappresenta la capacità di un materiale di resistere a sollecitazioni impulsive, definiti anche stress. Successivamente è stato applicato in campo psicologico
e racchiude le idee di elasticità, vitalità, energia e buon umore.

La resilienza non si acquisisce “geneticamente”, ma rappresenta un cammino da percorrere: l’esistenza è costellata da prove, ma la resilienza e l’elaborazione dei conflitti consentono, nonostante tutto, di continuare il proprio percorso di vita.
Le risorse interne acquisiste fino al momento del trauma permettono di reagire ad esso: in modo particolare, risultano determinanti  un attaccamento sicuro a figure di riferimento,  ed i comportamenti che consentono di essere benvoluti e in grado di riconoscere ed accettare gli aiuti che vengono offerti dall’esterno.
La resilienza non è una qualità dell’individuo, ma un divenire, che inserisce lo sviluppo della persona in un contesto.

Il termine di una situazione spiacevole, paradossalmente, non coincide con la fine delle sofferenze, ma, al contrario, sancisce il momento del loro inizio. Però, è possibile, rivalutare la propria sofferenza, modificare l’idea che si ha di essa, integrarla nella propria storia individuale, oltre che viverla come un valore aggiunto per la propria persona, che rende sensibili, a sua volta, alle sofferenze altrui, alle quali si sarà portarti a porre rimedio.

Le ferite non si rimargineranno mai completamente: rimarranno sempre una zona di vulnerabilità, un punto debole, che, d’altro canto, potranno rappresentare un punto di forza.

In linea generale, però, nessuna sofferenza è irrimediabile, ma può essere trasformata e vissuta come occasione di cambiamento e di miglioramento di se stessi e della propria esistenza e ci si arriva ricorrendo a dei “tutori”.

Primo fra tutti il temperamento, che rappresenta una disposizione a comportarsi e a sviluppare la propria personalità in un determinato modo. Indica il ‘come’ ci si sviluppa, più che il ‘perché’. Esso è influenzato sia dai determinanti genici, sia dal contesto socioculturale in cui si vive. L’espressione “determinante genico” non è sinonimo di non modificabilità, al contrario, a volte, è più facile correggere, ad esempio, una alterazione metabolica, che non un pregiudizio.
Il temperamento non è soltanto un comportamento, ma anche una modalità che consente di inserirsi nel proprio ambiente e che influisce sulle risposte altrui nei propri confronti. L’ambiente di vita, in particolare quello familiare, risente delle aspettative genitoriali, delle immagini interiorizzate, della loro storia individuale, che agiscono già prima della nascita stessa del figlio.
Anche l’ambiente socioculturale esterno interviene piuttosto precocemente ad influenzare il temperamento.

Un altro  valido tutore di resilienza è la socializzazione: quanto più numerose saranno le persone sulle quali poter contare, tanto più elevate saranno le possibilità di successo. Ad essa si accompagna la seduzione, uno stile relazionale ed una modalità di risoluzione dei conflitti che porta ad essere benvoluti, oltre che in grado di riconoscere ed accettare le forme di aiuto offerte.

La presenza di persone disposte all’ascolto consente di mettere in atto un altro tutore della resilienza: il racconto. E’ importantissimo avere persone vicine a cui poter raccontare la propria esperienza che a loro volta possono imparare molto dalle persone che sono state sfregiate nel corso della loro vita: esse, con il loro esempio, possono indicare che è possibile risanare le ferite subite, oltre che insegnare come fare.

Per comunicare e condividere la propria esperienza il resiliente ha un ulteriore tutore: l’umorismo. Esso ha valore liberatorio e permette di trasformare la sofferenza in un evento sociale piacevole, che, a sua volta, favorisce la riduzione delle distanze con gli altri e modifica l’immagine che essi hanno della persona ferita, non più vittima sofferente, ma costruttore attivo della propria esistenza.

Concludendo chi pratica Karate-do  ha la possibilità di ricorrere a tutti i tutori che lo renderanno una persona resiliente.

In questa prospettiva, il trauma rappresenta una sfida che mobilita le proprie risorse interne, oltre che quelle socioculturali dell’ambiente circostante: non ci si può esimere dall’accettare tale sfida, perché la vittoria rappresenta il raggiungimento di un equilibrio nuovo e superiore, rispetto a quello da cui si era partiti.

 

Oss!

Francesca Pastorelli
Allieva dell’Heijo Shin Dojo

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